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IV. Criticità dell’adempimento collaborativo con particolare riguardo alla responsabilità penale: considerazioni conclusive

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L’aspirazione del legislatore di realizzare una sorta di rivoluzione copernicana nei rapporti tra Fisco e grandi imprese si scontra con alcuni profili di criticità del regime che vanno esaminati anche alla luce della recente riforma in materia di responsabilità amministrativa delle società ed enti collettivi.

Una prima criticità riguarda la responsabilità penale. Il legislatore non ha escluso, nei confronti delle imprese ammesse al regime di adempimento collaborativo, rischi e responsabilità penali laddove le interpretazioni dell’Agenzia delle entrate sulle operazioni comunicate ex ante divergano da quelle delle imprese stesse. Questo aspetto, che dovrebbe rappresentare un effetto più che naturale dell’ammissione al regime, dato il comportamento trasparente dell’impresa, se e nella misura in cui adempie ai suoi doveri di comunicazione, involge tuttavia un tema controverso. Il riferimento è, da un lato, all’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di procedere sempre all’inoltro della notitia criminis laddove si realizzi oggettivamente un’evasione che superi i limiti quantitativi indicati dalla norma e che concretizzi, cioè, l’oggetto naturale del reato; dall’altro, al principio in base al quale l’accertamento dell’elemento psicologico del reato e, cioè, del dolo compete sempre e solo al giudice penale. La questione assume particolare rilevanza alla luce della recente riforma della disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi (c.d. “Disciplina 231”). Come è noto, l’art. 39, comma 2, del D.L. n. 124/2019, convertito con modificazioni nella L. n. 159/2019 ha introdotto nel D.lgs. 231/2001 il nuovo art. 25-quinquiesdecies che ha previsto l’inserimento nel catalogo dei c.d. reati presupposto della responsabilità diretta dell’ente di alcune fattispecie di delitti tributari previste dal D.lgs. n. 74/200040. La riforma della “disciplina 231” non può, tuttavia, considerarsi esaurita con il citato decreto fiscale tenuto conto che, in attuazione della c.d. “direttiva PIF”41, sono entrati a far parte del catalogo 231, con il dichiarato fine di armonizzare la lotta contro la frode che lede gli interessi dell’UE, nuovi reati fiscali quali i delitti di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e indebita compensazione – punibili, peraltro, anche nella forma “di delitto tentato e non solo consumato” – laddove presentino elementi di transnazionalità e l’imposta IVA evasa sia superiore a 10 milioni di euro. Con questo intervento legislativo, le imprese rischiano di vedersi applicare le gravose misure sanzionatorie previste dal nuovo d.lgs. n. 231/2001 qualora, in sede penale, siano riconosciute colpevoli dei più insidiosi reati fiscali che il legislatore ha ritenuto idonei a far scattare la responsabilità amministrativa degli enti.

Nella “disciplina 231”, l’imputazione dell’illecito alla persona fisica è basata, come noto, sulla presunzione di colpevolezza del soggetto apicale o dei soggetti ad esso sottoposti che hanno compiuto il reato fiscale nell’interesse o a vantaggio dell’ente42 mentre lo stesso reato viene addebitato all’ente a titolo di colpa che, pur essendo accertata da un giudice penale, configura una responsabilità amministrativa in capo all’ente stesso43. Si tratta, in particolare, della c.d. “colpa di organizzazione” e, dunque, della mancata adozione o dell’inefficace attuazione di un modello di organizzazione e di gestione del rischio idoneo a prevenire i reati contenuti nel catalogo 23144. Per tali soggetti, l’unica via di fuga è dunque rappresentata dall’adozione di adeguati modelli di controllo interno che, ispirandosi alla logica della compliance integrata, siano in grado di consentire all’ente di prevenire la commissione di tali reati o di difendersi dimostrando di aver adottato efficaci azioni e misure volte a contrastarli45. Tutto ciò soprattutto se si considera che l’ente è tenuto a dimostrare che il modello di organizzazione e gestione è stato fraudolentemente eluso da coloro che hanno commesso il reato e che non vi è stato omesso o insufficiente controllo da parte dell’Organismo di vigilanza.

In questa prospettiva, è logico ritenere che le società che già adottano un Modello 231 devono interrogarsi sulla “robustezza” dei propri sistemi di controllo al fine di aggiornarli alla luce della recente riforma della disciplina 231 mentre quelle che non ne sono dotate devono attentamente considerare l’eventualità di implementarlo46. A tal fine, il recente intervento normativo in materia di responsabilità degli enti potrebbe essere l’occasione per avviare una più profonda e complessiva riflessione sul ruolo dei modelli organizzativi nella gestione dei rischi d’impresa.

Il Tax Control Framework, espressivo di un rapporto “virtuoso” tra Fisco e imprese fondato sul binomio collaborazione/premialità, potrebbe essere il punto di partenza per la costruzione di un sistema integrato di controlli capace di garantire un presidio costante sui processi aziendali e sui conseguenti rischi (compreso quello fiscale) nell’ottica di realizzare una compliance integrata che possa rappresentare un volano per le imprese che intendono entrare nel regime di adempimento collaborativo. Pur volendo prescindere dal regime di adempimento collaborativo – per ora limitato ad una platea ristretta di contribuenti, nonostante sia stata abbassata la soglia di ingresso47– l’implementazione di un sistema interno di misurazione e controllo del rischio fiscale potrebbe, tuttavia, rivelarsi una scelta strategica per le imprese in quanto consentirebbe di minimizzare il rischio di incorrere nelle sanzioni pecuniarie, interdittive48 e nella c.d. confisca per equivalente del profitto del reato previste dal nuovo sistema 231 generando un ‘vantaggio competitivo’ in termini di stabilità economica e patrimoniale49. Sembrano spingere in questa direzione, le ultime novità introdotte, a livello nazionale, come la nuova disciplina dei reati tributari che ha previsto l’inasprimento delle sanzioni e la riduzione delle soglie di punibilità50, e a livello europeo, come le norme di contrasto agli Hybrid mismatch arrangements contenute nelle direttive ATAD I e II51 o alle Mandatory disclosure rules previste dalla DAC 652, le quali impongono alle imprese di predisporre specifiche procedure per l’individuazione dei ruoli e delle responsabilità dei soggetti coinvolti al fine di assicurare la corretta gestione di adempimenti anche sotto il profilo fiscale.

Una seconda criticità, che emerge dal Provvedimento del 2017, attiene alla possibile reiterazione dei controlli nei confronti dei soggetti ammessi al regime di adempimento collaborativo. Tanto nella disciplina ordinaria quanto in quella di attuazione mancano disposizioni volte a impedire la reiterazione dei controlli sui rischi fiscali presidiati dal Tax Control Framework ma non portati al tavolo delle interlocuzioni costanti e preventive, perché non suscettibili di integrare le condizioni di “rischi fiscali significativi”53 per i quali operano automaticamente i doveri di collaborazione e di trasparenza posti a carico dei contribuenti. La disciplina di attuazione stabilisce, infatti, che l’Agenzia delle entrate non reitera i controlli già effettuati solo limitatamente alle fattispecie suscettibili di generare rischi fiscali significativi, salvo che non emergano mutamenti nelle circostanze di fatto o diritto rilevanti ai fini della valutazione effettuata o che si ravvisi che le stesse siano state rappresentate in maniera non veritiera o non completa54 e salvo il potere di verificare l’esatta applicazione delle risposte rese o il rispetto dei termini degli accordi55. Dunque, per le suddette fattispecie, il Tax Control Framework – se correttamente implementato – diventa “affidante” per l’Agenzia delle entrate. Al contrario, per i rischi fiscali presidiati dal Tax Control Framework ma non soggetti all’obbligo di tempestiva ed esauriente comunicazione all’Ufficio Cooperative compliance perché non assimilabili ai “rischi fiscali significativi”, il Tax Control Framework non rappresenterebbe, per l’Erario, una garanzia dell’effettività del governo di tali rischi da parte delle imprese nonostante le stesse abbiano osservato l’obbligo di implementare questo sistema di controllo interno per accedere al regime dell’adempimento collaborativo. Le imprese che hanno aderito al regime rischiano, dunque, di subire controlli ex post anche a fronte di un sistema interno di controllo del rischio fiscale correttamente implementato e che pure attribuisce al predetto Ufficio, in via preventiva rispetto alla dichiarazione fiscale, tutti gli strumenti per controllare le fattispecie suscettibili di generare rischi fiscali, anche se non tempestivamente comunicate dal contribuente. Questa regola lascia perplessi perché non risponde alla ratio dell’istituto. Una volta implementato il Tax Control Framework, l’Ufficio Cooperative compliance ha già, e in via preventiva rispetto alla dichiarazione fiscale, tutti gli strumenti per controllare fattispecie suscettibili di generare rischi fiscali; e un tale potere riconosciuto ex ante dovrebbe comportare l’esaurimento del controllo ex post, tanto dell’Ufficio Cooperative compliance quanto delle articolazioni territoriali competenti, per tutte le questioni che, in quanto non soggette agli obblighi di comunicazione, non devono essere portate al tavolo delle interlocuzioni costanti e preventive ma sono, comunque, ricomprese nella mappa dei rischi e, quindi, conosciute o conoscibili dall’Ufficio stesso. A questo punto, si potrebbe obiettare che l’adempimento collaborativo si configura come un regime di favore per i contribuenti che ad esso aderiscono e che verrebbero sottratti ai controlli fiscali cui rimarrebbero invece soggetti i contribuenti privi dei requisiti dimensionali per accedere al regime in esame. Ma non è così perchè nel regime di adempimento collaborativo, l’Autorità fiscale non abdica ai controlli sui contribuenti ammessi al regime ma li anticipa rispetto alla dichiarazione dei redditi e li rende così più efficaci in quanto finalizzati al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria da parte dei contribuenti. Con l’introduzione dell’adempimento collaborativo certamente si diversifica la modalità concreta di esercizio dei poteri di controllo da parte dell’Autorità fiscale, ma ciò avviene non discriminando contribuenti posti nella stessa situazione, bensì trattando diversamente le differenti situazioni dei contribuenti ammessi al regime e di quelli che non possono entrarvi: solo i primi, infatti, assumono l’obbligo di implementare un sistema di controllo interno del rischio fiscale che, rendendo più affidabile la gestione della variabile fiscale, consente all’Agenzia delle entrate di modulare diversamente la propria azione di controllo. Per queste ragioni, si auspica che il legislatore tributario intervenga per stabilire che tutti i rischi fiscali dei contribuenti ammessi al regime, in quanto monitorati e presidiati dal TCF e offerti così in modo trasparente al potere di controllo ex ante dell’Ufficio Cooperative compliance, non possano essere oggetto di ulteriore verifica e accertamento ex post se non per il dovuto riscontro dell’effettiva applicazione delle soluzioni interpretative rese dall’Ufficio Cooperative compliance nell’ambito delle interlocuzioni costanti e preventive56.

Nonostante le criticità fin qui esaminate, ciò che resta da verificare è se le imprese che intendono entrare nel regime di adempimento collaborativo sapranno adeguatamente seguire le indicazioni del legislatore e soprattutto se comprenderanno che i maggiori oneri, amministrativi ed economici, che dovranno sopportare per implementare il nuovo modello di compliance, sono destinati a dare i loro frutti in termini di prevenzione di rischi che si fanno sempre più incombenti e che, nei casi più gravi, potrebbero addirittura compromettere la continuità aziendale57.

1. Legge 11 marzo 2014, n. 23 volta a realizzare un sistema fiscale più equo, trasparente ed orientato alla crescita. La citata legge delega ha dettato principi e criteri direttivi volti a riformare alcuni istituti di promozione della compliance come il sistema degli interpelli tributari e a prevedere nuovi istituti come gli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, l’interpello sui nuovi investimenti e il regime di adempimento collaborativo nei quali il confronto con il contribuente è preventivo rispetto alla presentazione della dichiarazione e al versamento dell’imposta al fine di stimolare la tax compliance dei soggetti passivi d’imposta. Per un approfondimento, sia consentito rinviare al mio Dal controllo fiscale sul dichiarato al confronto preventivo sull’imponibile. Dall’accertamento tributario alla compliance, Cedam-Wolters Kluwer, Milano, 2017.

2. L’interesse delle imprese, soprattutto di grandi dimensioni, verso l’adozione di sistemi di monitoraggio e gestione del rischio fiscale, inteso come il rischio di operare in violazione di norme di natura tributaria o in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento tributario, ha ricevuto un significativo impulso dall’Ocse che, come è noto, si è fatta promotrice di una nuova relazione tra Fisco e contribuenti, ispirata ai principi di trasparenza, collaborazione e correttezza. Sul tema cfr. G. Marino (a cura di), Corporate tax governance, Egea, Milano, 2018; G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, Giappichelli, Torino, 2018.

3. Sulla “giusta” imposta, si veda lo studio risalente di L. Einaudi, Contributo alla ricerca dell’ottima imposta, Ed. Bocconi, Milano, 1929, e la monografia di L. V. Berliri, La giusta imposta: Appunti per un sistema giuridico della pubblica contribuzione. Lineamenti di riforma organica della finanza ordinaria, Milano, 51. Sul diritto del contribuente alla giusta imposizione si veda M. Miscali, Il diritto alla giusta imposta, Pearson, Pescara, 2009 e, più di recente, S. Mangiameli, Il diritto alla “giusta imposizione”. La prospettiva del “costituzionalista”, in Dir. prat. trib., n. 4, 2016, 1373 ss.

4. Ai fini della nostra analisi si intende per tale il rischio del contribuente di subire accertamenti e sanzioni tributarie per violazione della normativa tributaria sulla determinazione della base imponibile del tributo a causa dell’incerta interpretazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

5. In passato, R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Ipsoa, Milano, 1998, 107 s. aveva già messo in evidenza che la circospezione dei funzionari non è tanto ispirata a propositi vessatori verso il contribuente ma alla comprensibile tendenza ad avere “le spalle coperte” e possedere, quindi, una tesi interpretativa che li metta al riparo dal sospetto di negligenze e connivenze. Questo atteggiamento è il frutto della diffusione negli Uffici “di una mentalità burocratica-formalistica che mortifica lo spirito d’iniziativa e tende a schivare le responsabilità”. Si corre, addirittura, il rischio che l’amministrazione agisca come se fosse il legislatore “non certo riscrivendo le regole, ma ragionando senza considerare le regole esistenti”; sicchè, “il disinvolto atteggiamento degli Uffici di risalire alla “capacità contributiva” trascurando le scelte legislative cede all’impulso di “punire chi ha fatto il furbo” anche a costo di distruggere la certezza delle regole e spesso anche al costo di considerare “furbizie” comportamenti del tutto normali, solo perché agendo in altro modo si sarebbero pagate maggiori imposte”.

6. Sul punto v. M. Basilavecchia, Efficacia diretta dell’art. 53 Cost., in L. Salvini – G. Melis (a cura di), L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, Cedam, Padova, 2014, 91; Id., La determinazione concordata della ricchezza. Relazione al Convegno “Crisi dei metodi di accertamento tributario e prospettive di riforma”, Università L. Bocconi, Milano, 25 e 26 settembre 2014.

7. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Castelvecchi, Roma, 2017, 315 afferma che in queste rettifiche “di diritto”, volte a massimizzare il carico fiscale del contribuente, “gli uffici tributari hanno le spalle coperte, e possono richiamarsi a leggi, circolari, sentenze e altri materiali normativi, evitando le responsabilità connesse alla valutazione “in fatto” della ricchezza non registrata”. Inoltre, queste rettifiche “di diritto” “fanno da schermo alle possibili frodi dei titolari, molto più imbarazzanti da cercare e difficili da scoprire per le organizzazioni istituzionali. A queste ultime conviene usare le contestazioni interpretative, evitando l’imbarazzante valutazione, per ordine di grandezza, della ricchezza non registrata”. Tanto è vero che il sospetto di una frode fiscale è “uno dei motivi che innescano, come per scaramanzia, il diversivo delle contestazioni interpretative alle organizzazioni aziendali”; con l’aggravante che “l’insistenza dei controlli su questioni di diritto induce in tentazione gli imprenditori che hanno ancora margini per scavalcare le proprie procedure amministrative” e, dunque, realizzare una nuova frode fiscale.

8. Solleva la questione M. Basilavecchia, L’etica dell’amministrazione finanziaria tra responsabilità ed autotutela, in Etica Fiscale e Fisco Etico, Neotera, n. 2, 2015, 31 s.. il quale afferma che: “quando è chiamata a svolgere i suoi compiti essenziali di accertamento, l’Agenzia si sente in un certo senso autorizzata a interpretare le norme nel modo che è più funzionale al raggiungimento dei suoi obiettivi quantitativi”. Con la soppressione del Ministero delle Finanze e con la nascita delle Agenzie fiscali (L. n. 300/1999) è accaduto un fatto strano che Basilavecchia riassume efficacemente nel modo seguente: “L’Agenzia è in realtà diventata essa stessa il Ministero che non c’è più, e questa trasformazione espansiva è rivelata soprattutto da due elementi, dal fatto che essa abbia sostanzialmente monopolizzato la funzione di interpretazione della norma tributaria, e che sia stata in questi anni troppo spesso il motore propulsivo, o invece l’ostacolo insuperabile, dello stesso esercizio della funzione legislativa”. Sono, dunque, sorte “delle incongruenze nell’attuale ruolo ordinamentale dell’Agenzia”; sicchè, “la situazione attuale costituisce un valido motivo per pretendere, da un’amministrazione pubblica quale l’Agenzia è, un rigoroso rispetto della Costituzione e delle leggi”. A tal fine, questo Autore ribadisce con forza che l’Amministrazione finanziaria non può e non deve crearsi, nell’esercizio della funzione impositiva, “una propria “etica del tributo”, che magari la porti a sentirsi autorizzata alla stessa disapplicazione delle leggi, ma deve dare attuazione nel senso più completo alla legislazione esistente, la trovi o meno funzionale alla realizzazione dei propri obiettivi. Non deve mai cercare un proprio nucleo di valori, per quanto apprezzabili, che non sia stato posto a base di norme di legge”. In senso conforme, v. G. Marongiu, Navigando tra le norme tributarie: alla ricerca di qualche certezza; G. Gaffuri, Stato di diritto nel procedimento di accertamento (linee essenziali di una relazione) entrambi in Stato di diritto e Stato sociale nell’attuale esperienza fiscale – Atti del XXXII Congresso nazionale ANTI, in Neotera, n. 1, 2014, 5 s. e 6 ss.

9. R. Lunelli, Per un fisco sostenibile in Neotera, n. 2, 2017, 6 efficacemente afferma: “va potenziato il ruolo preventivo – più che repressivo – dell’Amministrazione finanziaria; (…) … ma ancor prima serve una cultura della legalità e una educazione al reciproco rispetto fra il cittadino e le Istituzioni. Meglio sarebbe una reciproca fiducia … ma siccome la fiducia è un sentimento che, una volta perduto, difficilmente rinasce … potrebbe bastare l’osservanza delle regole (da parte, questo sì, di tutti, come vuole la Costituzione): con l’obiettivo di un Fisco che – nella sua articolazione e complessità – sia ‘equo’ e, nel frattempo, ‘accettabile’ e ‘sostenibile’ ”.

10. M. Basilavecchia, L’etica dell’amministrazione finanziaria tra responsabilità ed autotutela, cit., 31 ha chiarito che “Responsabilità vuol dire, in primo luogo, svolgere senza timori un ruolo che, pur condizionato da ‘target’ e ‘budget’, è e resta quello di dare attuazione alla legge, senza sottrarsi alla difficoltà di compiti interpretativi …”.

11. Vista la mancanza di discrezionalità per l’Amministrazione finanziaria nella determinazione dell’imposta, non residua – come è noto – alcuno spazio valutativo degli interessi del privato coinvolti nella fattispecie concreta; sicchè, l’interpretazione degli Uffici è sempre vincolata alla legge e finalizzata all’applicazione del tributo in misura conforme alla capacità contributiva espressa dal presupposto. A questo riguardo, R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, cit., 116 s. ha affermato che il riferimento alla vincolatezza dell’azione impositiva “ha costituito una copertura ‘culturale’ (o per meglio dire ‘un pretesto’) della deresponsabilizzazione degli uffici, intesa come tendenza a coltivare per forza d’inerzia qualsiasi pratica capitasse loro sulla scrivania”. In altri termini, la suddetta vincolatezza era “diventata un pretesto per mettere in secondo piano il ragionamento, e in ultima analisi il buonsenso, nella gestione degli uffici”. Sulla stessa questione, più di recente, Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, cit., 284 ha affermato che: “La fantomatica ‘vincolatezza’ alimenta poi la tendenza a ‘non decidere’ riparandosi dietro la solita cortina fumogena di riferimenti normativi, privi di reale filo conduttore, ma declamati in nome di una ineffabile legalità, scaricando la pratica su altri o prendendo tempo coi soliti infiniti rinvii. Questa mentalità è particolarmente nociva nelle funzioni, come quella tributaria, dove una forte componente valutativa deve essere esercitata in modo sistematico”. A tal fine, occorre distinguere tra la “vincolatezza nella determinazione dell’imposta” ed il resto delle attività degli Uffici volte a garantire al contribuente, attraverso scelte di opportunità, ponderazioni di interessi pubblici e valutazioni costi-benefici, il diritto a non pagare più di quanto sia dovuto in base sia alla corretta valutazione della legge che all’ interpretazione dei fatti. Solo con riferimento alle attività diverse dalla determinazione dell’imposta è, dunque, possibile individuare spazi per l’esercizio della funzione valutativa tributaria dell’Amministrazione finanziaria finalizzata ad individuare la ricchezza non determinata contabilmente attraverso le aziende.

12. Cfr. M. Versiglioni, Diritto tributario ed “Equivalent dispute resolution”, in Riv. dir. trib., n. 2, 2012, 223; Id., Accordo e disposizione nel diritto tributario, Giuffrè, Milano, 2001.

13. E’ appena il caso di ricordare che il primo tentativo fatto dal legislatore italiano per riformare, secondo il modello della cooperative compliance suggerito dall’Ocse, i rapporti tra Fisco e grandi imprese è rappresentato dal c.d. tutoraggio fiscale. Questo regime ha avuto il merito di rendere il nostro ordinamento permeabile all’idea che, nei confronti dei grandi contribuenti, l’efficacia dell’azione accertatrice dipende, più che da controlli repressivi o dissuasivi ex post, dall’instaurazione di un rapporto di compliance volto a prevenire il rischio di operare in violazione delle norme e dei principi dell’ordinamento tributario (c.d. rischio fiscale). In questa prospettiva, il tutoraggio ha aperto la strada al regime opzionale di adempimento collaborativo in quanto ha introdotto, per la prima volta nel nostro ordinamento tributario, il concetto di rischio fiscale e ne ha messo in evidenza la rilevanza strategica ai fini del contrasto all’elusione e all’evasione fiscale. Nel tutoraggio fiscale, le imprese di grandi dimensioni sono sottoposte ad un’attività costante di monitoraggio ed analisi dei comportamenti ad elevata rischiosità perché suscettibili di generare un sottodimensionamento della base imponibile d’imposta. In tal modo, l’Agenzia delle entrate entra in possesso delle informazioni necessarie per attribuire ad ogni contribuente, oggetto di tutoraggio, un livello di rischio differente per tipologia e intensità. Nelle intenzioni del legislatore, il tutoraggio fiscale era finalizzato ad innalzare il livello di adempimento spontaneo delle grandi imprese. In realtà, questo obiettivo è stato raggiunto più con la logica della deterrenza che con quella della compliance posto che il regime di tutoraggio fiscale mira a garantire l’adeguamento dei contribuenti alla pretesa del Fisco e ciò a prescindere dalla condivisione dell’interpretazione adottata dagli Uffici che, nel caso specifico, possono fare leva sul fatto che a questi contribuenti interessa solo evitare la lite con il Fisco.

14. Legge 11 marzo 2014, n. 23.

15. Sotto il profilo soggettivo, va precisato che l’art. 7, comma 4, del Dlgs. n. 128/2015 individua i soggetti legittimati a presentare istanza di adesione al nuovo regime nei contribuenti di maggiori dimensioni, identificati in quelli che conseguono un volume di affari o di ricavi non inferiore a dieci miliardi di euro e nei soggetti che avevano già presentato istanza di adesione al progetto pilota sul regime di adempimento collaborativo, dotati di un sistema interno per la gestione del rischio fiscale e con volume di affari o ricavi non inferiore al miliardo di euro. Oltre a questi, sono ammesse anche le imprese che intendono dare esecuzione alla risposta dell’Agenzia delle Entrate, fornita a seguito di istanza di interpello sui nuovi investimenti (articolo 2, D. Lgs n. 147/2015), indipendentemente dal volume di affari o di ricavi. Per un approfondimento, sia consentito rinviare al mio Dal controllo fiscale sul dichiarato al confronto preventivo sull’imponibile. Dall’accertamento tributario alla compliance, cit., 172 ss.

16. Cfr. punto 5.4 del Provvedimento n. 101573/2017.

17. E’ appena il caso di precisare che all’Ufficio Cooperative compliance, incardinato presso la Direzione Centrale, il Provvedimento n. 101573/2017 ha attribuito il ruolo di interlocutore unico dei soggetti aderenti al regime e ciò sia nella fase delle interlocuzioni costanti e preventive attraverso l’individuazione dei c.d. funzionari di riferimento sia nella fase del controllo nella fase del controllo e dell’accertamento ex post sulle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti ammessi al regime.

18. Per un approfondimento cfr. M. Grandinetti, Interlocuzioni ed accordi nell’adempimento collaborativo, in A. Guidara (a cura di), Accordi e azione amministrativa nel diritto tributario, Pacini giuridica, Pisa, 2020, 65 ss.

19. Solleva la questione M. Basilavecchia, L’etica dell’amministrazione finanziaria tra responsabilità ed autotutela, in Etica Fiscale e Fisco Etico, Neotera, n. 2, 2015, 31 s.. il quale afferma che: “quando è chiamata a svolgere i suoi compiti essenziali di accertamento, l’Agenzia si sente in un certo senso autorizzata a interpretare le norme nel modo che è più funzionale al raggiungimento dei suoi obiettivi quantitativi”.

20. Come è noto, il nostro sistema fiscale, basato sull’autoliquidazione dell’imposta, ha demandato alla valutazione ex post il controllo da parte del Fisco. Ciò ha generato una situazione di conflittualità fra le parti che ha contribuito ad alimentare contenziosi dall’esito spesso incerto, poiché il soggetto controllore si trova a ricostruire e ad interpretare i comportamenti del contribuente solo a diversi anni di distanza rispetto a quando quelle azioni sono state poste in essere e dichiarate. In questo contesto, le contestazioni interpretative sul dichiarato sono state volte più a “fare cassa” che a determinare la giusta base di commisurazione dell’imposta. Sul punto F. Pistolesi, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimento collaborativo, in il fisco, n. 30, 2017, 2414.

21. Il legislatore tributario non ha imposto alle imprese che intendono aderire a detto regime un modello teorico predefinito ma ha lasciato piena autonomia nella scelta delle soluzioni organizzative più adeguate per il perseguimento dei relativi obiettivi, fermo restando l’obbligo di adempiere ai doveri di trasparenza e collaborazione che caratterizzano la relazione rafforzata con l’Agenzia delle entrate; sicché le imprese, ove già implementato, potranno fare riferimento al c.d. Modello 231, quale modello di gestione e di controllo interno delle scelte aziendali volto a contrastare la responsabilità amministrativa delle società ed enti per i reati disciplinati dal D.Lgs. n. 231/2001.

22. Cfr. art. 4.4 Provvedimento n. 101573/2017.

23. Provvedimento del 14 aprile 2016, n. 54237 recante “Disposizioni concernenti i requisiti di accesso al regime di adempimento collaborativo disciplinato dagli artt. 3 e seguenti del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128”.

24. Tali requisiti essenziali sono: a) una chiara e documentata strategia fiscale; b) una chiara attribuzione di ruoli a persone con adeguate competenze ed esperienze, secondo criteri di separazione dei compiti; c) efficaci procedure volte a: rilevare il rischio attraverso la mappatura dei rischi fiscali associati ai processi aziendali, misurare il rischio attraverso la determinazione dell’entità dei rischi fiscali in termini qualitativi o quantitativi; gestire e controllare il rischio attraverso la definizione di azioni finalizzate a presidiare i rischi fiscali e prevenire il verificarsi degli eventi; d) efficaci procedure di monitoraggio che, attraverso un ciclo di autoapprendimento, consentano l’individuazione di eventuali errori nel funzionamento del sistema e la conseguente attivazione delle azioni correttive; e) adattabilità dell’impresa ai principali cambiamenti che riguardano l’impresa, comprese le modifiche alla legislazione fiscale; f) relazione annuale da inviare agli organi di gestione per l’esame e le valutazioni conseguenti, contenente gli esiti dell’esame periodico e delle verifiche effettuate sugli adempimenti tributari, le attività pianificate, i risultati connessi e le misure messe in atto per rimediare ad eventuali carenze emerse a seguito del monitoraggio.

25. “Cooperative Tax compliance: building better tax control framework”, OCSE, 2016.

26. E’ appena il caso di ricordare che la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti ha inteso rispondere all’esigenza di apprestare una risposta sanzionatoria verso quelle forme di criminalità d’impresa rispetto alle quali è, in una certa misura, tangibile un legame tra organizzazione (o addirittura cultura d’azienda) e commissione di determinati reati, specificatamente indicati dal legislatore, da parte di soggetti posti nell’organigramma aziendale in posizione apicale o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei primi. Di qui, l’ancoraggio della responsabilità dell’ente, da un lato, all’interesse (inteso come il fine contenuto nella condotta delittuosa della persona fisica e valutato dal giudice penale ex ante, cioè al momento dell’azione) o al vantaggio (inteso come profitto materiale ottenuto grazie alla commissione del reato anche indipendentemente dall’interesse del soggetto agente e valutato dal giudice penale ex post) quali criteri oggettivi di imputazione volti ad individuare una correlazione tra reato della persona fisica ed ente e, dall’altro, a quella forma di colpevolezza dell’ente intesa come espressione di un deficit organizzativo imputabile, per un verso, alla mancata o insufficiente implementazione di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi (declinata secondo i criteri dettati dagli artt. 6 e 7 del d.lgs n. 231/2001) e, per l’altro, alla mancata attribuzione di vigilanza su tale modello da parte di un organo interno dotato di poteri autonomi di iniziativa e controllo. Il tramonto del tradizionale principio “societas delinquere non potest” in favore del nuovo e rivoluzionario brocardo “societas puniri potest” ha rappresentato un significativo punto di svolta per il nostro sistema giuridico in tema di responsabilità d’impresa. In particolare, il ‘decreto 231’, nella sua versione originaria, circoscriveva il genus dei reati presupposto della responsabilità diretta dell’ente a talune ipotesi criminose a tutela della pubblica amministrazione (delitti di indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico, nonché ai delitti di corruzione). Nel corso degli anni, l’opzione iniziale del legislatore è stata radicalmente ripensata, se non del tutto stravolta. L’elenco dei reati presupposto ha, infatti, progressivamente perso le sembianze di un disegno armonioso e coerente con lo spirito del decreto in esame (colpire le forme di occasionale devianza dal sentiero della legalità nel preciso contesto della realtà d’impresa) in ragione dell’ampliamento – a tratti incontrollato – delle fattispecie previste e del conseguente addensarsi delle aree di rischio-reato. Recentemente, taluni delitti tributari, disciplinati dal d.lgs. n. 74/2000, sono entrati a far parte del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti, superando così il tradizionale assetto che voleva il sistema penale-tributario estraneo alla sfera di applicazione della c.d. corporate liability. Questo aspetto sarà oggetto di approfondimento nel paragrafo 4 di questo lavoro.

27. Il Provvedimento n. 101573/2017 al punto 1.1 i) ha stabilito che “per mappa dei rischi fiscali” si intende la mappa dei rischi fiscali individuati dal sistema di controllo al momento della sua implementazione. La mappa evidenzia, ove quantificabile, il valore economico delle attività in cui si compone il processo, i rischi fiscali associati, la rilevanza degli stessi ai fini del raggiungimento degli obiettivi aziendali, nonché i controlli posti a presidio degli stessi.

28. Per B. Ferroni, Collaborazione, asset reputazionale, in Il sole 24 ore del 29/5/2017, 19 l’adesione al regime di adempimento collaborativo, che mira a conseguire la “certezza fiscale” sulle scelte dell’impresa, va opportunamente inquadrata in una prospettiva di “corporate social responsability”: cioè di una cultura aziendale virtuosa che promuove la consapevolezza a tutti i livelli dei valori di trasparenza, onestà, correttezzae rispetto delle regole. In questi termini, la cooperative compliance è anche espressione dei valori cui l’impresa si ispira e costituisce un asset reputazionale nei confronti del mercato. La pubblicazione sul sito dell’Agenzia delle entrate delle imprese che hanno aderito al regime rappresenta, infatti, una sorta di “bollino blu” che ne certifica l’affidabilità e la correttezza sotto il profilo fiscale.

29. V. art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 128/2015 e punto 1.1.p) del Provvedimento n. 101573/2017,, dove per “anticipazione del controllo” si intende l’esercizio in via anticipata, anche di iniziativa, degli ordinari poteri di controllo da parte dell’ufficio competente effettuato nell’ambito dell’interlocuzione costante e preventiva su elementi di fatto di cui all’art. 6, comma 1, del decreto.

30. Cosi art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 128/2015. Per un commento cfr. G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 76 in particolare nt. 52.

31. Cfr. art. 6, comma 4, del D. Lgs. n. 128/2015.

32. Per un commento, S. Gianoncelli, Cooperative compliance e tutela penale dell’interesse fiscale, in Riv. dir. trib., n. 3, 2020, 271.

33. In questi termini, F. Pistolesi, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimento collaborativo, cit., 2416.

34. Cfr. Provvedimento n. 101573/2017, punto 10.1.

35. V. art. 7, comma 4, lett. b) del D.Lgs. n. 128/2015.

36. Cfr. Provvedimento n. 101573/2017, punto 10.2.

37. Si intende far riferimento all’ attività di liquidazione (di cui agli artt. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 e 54-bis del D.P.R. n. 633/1972) e di controllo formale (di cui all’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973) delle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti ammessi al regime che, in assenza della attribuzione di competenza esclusiva all’Ufficio Cooperative compliance, sarebbe stata di competenza delle articolazioni dell’Agenzia delle entrate ed esercitabili su propria iniziativa.

38. Cfr. Provvedimento n. 101573/2017, punto 11.1 lett. c). Il riferimento è agli artt. 32 e 33 del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 2, e 52 del D.P.R. n. 633/1972.

39. Provvedimento n. 101573/2017, punto 11.2.

40. I delitti tributari di cui al D.lgs. n. 74/2000, ora rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato, sono i seguenti: a) delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 2, comma 1 (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità); b) delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 2, comma 2-bis (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità); c) delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall’articolo 3 (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità); d) delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 8, comma 1 (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità); e) delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 8, comma 2-bis (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità); f) delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall’articolo 10 (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità); g) delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall’articolo 11 (sanzioni interdittive e sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote, aumentata di un terzo se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità).

41. Direttiva UE 2017/1371. Per un commento v. G. Flora, Prime riflessioni sulle problematiche penalistiche del recepimento della “Direttiva PIF” nel settore dei reati tributari e della responsabilità “penale” degli enti, in Discrimen– Rivista di diritto penale del 12 novembre 2019.

42. Come è noto, nella disciplina 231, l’ente (intendendosi per tale qualsiasi soggetto passivo diverso da una persona fisica, anche di natura non commerciale, ed indipendentemente da qualsiasi requisito dimensionale) risponde per i reati commessi: a) dai soggetti apicali, ossia persone che hanno funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione; b) dai soggetti subordinati, ossia persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti sub a). Per dare luogo alla responsabilità dell’ente, il reato deve essere stato commesso dai soggetti sopra indicati nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso. Con riferimento ai reati fiscali, l’interesse o vantaggio dell’ente potrebbe considerarsi esistente in re ipsa, dal momento che tali reati si concretano in comportamenti di evasione fiscale, ovvero di sottrazione al pagamento di imposte, o ancora strumentali all’evasione come l’occultamento o la distruzione di documenti contabili; in tutti questi casi, il vantaggio è evidentemente costituito dal risparmio di imposta di cui il contribuente ha lucrato.

43. Sulla natura della responsabilità penale v. G. L. Gatta, I profili della responsabilità penale nell’esercizio della Corporate Tax Governance, in G. Marino (a cura di), Corporate tax governance,, cit., 118.

44. Cfr. L. Salvini, I reati tributari nel decreto 231/01: una sfida per le imprese di ogni dimensione, in Sistema penale, n. 7, 2020, 133.

45. Per un approfondimento sia consentito rinviare al mio L’evoluzione del rapporto Fisco-imprese tra gestione del rischio fiscale e nuova responsabilità degli enti per reati tributari in AA.VV., Saggi in ricordo di A. Fantozzi, Pacini Giuridica, 2020, pp. 380 ss.

46. Nel contesto normativo così ricostruito, è interessante sottolineare che la Guardia di Finanza, nella circolare n. 216816/20, ha ricordato a tutti gli enti interessati l’importanza di aggiornare i modelli organizzativi, al fine di implementare efficaci sistemi di gestione del rischio fiscale. Le modifiche, come si legge nella citata circolare, potrebbero anche non essere necessariamente “radicali” dato che i modelli preesistenti dovevano già in qualche modo presidiare – seppure indirettamente – i reati tributari per il tramite di altri reati (si pensi, ad esempio, ai casi in cui la responsabilità amministrativa dell’ente deriva dal reato di autoriciclaggio. Questo reato, introdotto nel 2014, può moltiplicare la risposta sanzionatoria penale nel caso in cui il provento di un reato tributario sia anche semplicemente reimpiegato nell’attività di impresa). Bisogna poi tener conto che alcune aziende potrebbero avere accesso al regime di adempimento collaborativo di cui al D.Lgs. n. 128/2015 e, dunque, potrebbero disporre di un sistema di controllo del rischio fiscale inserito nel contesto del sistema di governo aziendale e di controllo interno. Sebbene i due sistemi (Tax control framework e modello organizzativo 231) non siano perfettamente sovrapponibili, la Guardia di Finanza ha sottolineato che, quantomeno “con riguardo alle aree comuni ai due sistemi, il positivo giudizio espresso dall’Agenzia delle Entrate ai fini dell’ammissione all’adempimento collaborativo possa costituire un utile elemento di valutazione dell’efficacia esimente del modello previsto dal decreto legislativo n. 231/2001”.

47. Va precisato che recentemente l’art. 139 del D.L. n. 34/2020 (c.d. Decreto rilancio), ha abbassato la soglia iniziale di 10 miliardi di euro, prevista dagli artt. 3 e 7 del D.Lgs. n. 128/2015, a 5 miliardi di euro allo scopo di incentivare, per gli anni 2020-21, l’ingresso delle imprese nel regime di adempimento collaborativo.

48. Disciplinate dall’art. 9, comma 2, del D lgs. n. 231/2001. Tra le sanzioni interdittive, l’esclusione o la revoca delle agevolazioni, dei contributi e sussidi hanno un carattere particolarmente afflittivo perché potrebbero finire per compromettere la continuità dell’impresa soprattutto in un periodo di crisi come quello attuale.

49. Nel nuovo contesto normativo, per il tramite del combinato disposto degli artt. 19 e 25-quinquiesdecies del decreto, appurata la responsabilità amministrativa da reato in capo alla persona giuridica, quest’ultima si vedrà obbligatoriamente applicare la confisca diretta del prezzo o del profitto originato dal reato tributario, ovvero, nell’ipotesi in cui ciò non sia possibile, di beni di valore equivalente. Tale forma di confisca potrà avere ad oggetto denaro o altri beni fungibili o beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa. Per un approfondimento v. A. D’Avirro, Confisca diretta, per equivalente e “allargata” nei reati tributari, in Rass. trib. n. 2, 2020, 487 ss.

50. Le principali modifiche al sistema penale tributario – recate dal primo comma del citato art. 39, D.L. n. 124/2019, convertito con modificazioni dalla L. n. 157/2019 – sono le seguenti: a) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 2, D.lgs. n. 74/2000: ora da quattro a otto anni se l’ammontare degli elementi passivi fittizi non è inferiore a euro 100.000 (nel caso in cui sia inferiore resta applicabile la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni: nuovo comma 2-bis della citata disposizione); b) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 74/2000: ora da tre a otto anni; c) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 4, comma 1, D.lgs. n. 74/2000: ora da due anni a quattro anni e sei mesi; d) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 5, comma 1, D.lgs. n. 74/2000: ora da due a cinque anni; e) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 5, comma 1-bis, D.lgs. n. 74/2000: ora da due a cinque anni; f) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 8, comma 1, D.lgs. n. 74/2000, se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d/imposta, non š inferiore a euro centomila (nel caso in cui sia inferiore resta applicabile la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni: nuovo comma 2-bis della citata disposizione); g) aumento della pena della reclusione per il delitto di cui all’art. 10, D.lgs. n. 74/2000: ora da tre a sette anni; h) modifiche ai “Casi particolari di confisca” di cui all’art. 12-ter, D.lgs. n. 74/2000.

51. Direttiva (UE) 2017/952 del Consiglio del 29 maggio 2017 (c.d. ATAD II) che ha innovato la Direttiva 2016/1164 (c.d. ATAD I) in tema di disallineamenti da ibridi, vale a dire le differenze nella qualificazione giuridica dei pagamenti tra giurisdizioni diverse, che coinvolgono i Paesi terzi.

52. Direttiva (UE) 2018/822 del Consiglio del 25 maggio 2018 – recante modifica della Direttiva 2011/16/UE – sullo scambio automatico obbligatorio di informazioni relative a meccanismi transfrontalieri che presentano determinati rischi di elusione o evasione fiscale.

53. E’ appena il caso di ricordare che il Provvedimento n. 101573/2017 stabilisce che per “rischi fiscali significativi” si intendono i rischi fiscali che insistono su fattispecie per le quali, sulla base di una comune valutazione tra Fisco e contribuente delle c.d. soglie di materialità quantitativa e qualitativa effettuata ai sensi del punto 4.4. del citato Provvedimento, si ritengono operanti i doveri di trasparenza e collaborazione previsti dall’art. 5 del D.Lgs. n. 128/2015.

54. Cfr., punto 10.3 del citato Provvedimento.

55. Cfr., punto 10.2 del citato Provvedimento.

56. Ciò, peraltro, in piena conformità all’Atto di indirizzo del MEF che afferma espressamente che il regime di cooperative compliance deve assicurare che “le attività di controllo tengano in debita considerazione il risk rating dei vari contribuenti interessati”. Si osserva, senza pretesa di completezza sul punto, che le esperienze estere di modelli di cooperative compliance riconoscono al governo interno alle imprese del rischio fiscale – la cui effettività va opportunamente riscontrata – quella funzione di controllo del rischio che, ordinariamente, è svolta dall’autorità fiscale attraverso verifiche ex post, con la conseguenza che il controllo, da parte di quest’ultima, delle risultanze delle dichiarazioni presentate è limitato ordinariamente al mero riscontro della corretta implementazione di quanto concordato in fase di interlocuzione antecedente l’invio delle dichiarazioni stesse.

57. In questi termini, cfr. L. Salvini, I reati tributari nel decreto 231/01: una sfida per le imprese di ogni dimensione, cit., 135.

Cumplimiento cooperativo y reducción de la conflictividad: hacia un nuevo modelo de relación entre la Administración tributaria y los contribuyentes

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